Articoli su Giovanni Papini

1927


Vito Giuseppe Galati

Introduzione a Papini

Pubblicato in: Il Baretti, anno IV, num. 1, pp. 2-3.
(2-3)
Data: gennaio 1927



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   —   Non c'è nessun che mi voglia dire
spietatamente, da vero amico, quel che ho fatto
di male, quel che non ho fatto e avrei dovuto
fare, i miei difetti, i miei vizi, i miei delitti?
   —   Io voglio farmi un'anima grande   —   voglio
diventare un uomo grande, un uomo puro,
nobile, perfetto.
   —   Non mi è accaduto neppure una volta
di sentir mormorara dentro di me il rimorso
per qualche azione non compiuta o fatta male,
o contraria a qualche legge degli uomini o
d'Iddio.
(G. PAPINI, Un uomo finito, 155)



Tra odii e amori

   Io non ho mai amato Giovanni Papini, benchè, come tutti quelli della mia generazione, l'abbia letto con interesse specialmente ai tempi della Voce, di Lacerba e del futurismo. Ma per questo mio stesso disamore o scetticismo o antipatia, che dir si voglia, al contrario di molti mei amici, che mendicarono le sue parole come affamati del nuovo o d'alcunchè di profetico, e lo inseguirono più che poterono nella sua corsa diseguale, glorificandolo a ogni ora (ciò che non esclude che oggi lo vituperino), pur senza perderlo di vista, da dieci anni in qua l'ho atteso serenamente alle sue tappe: o finte tappe: ho letto, cioè, i suoi libri. Veramente non tutti li ho letti con puntualità: però, dicendo tappe, ho detto giusto: giacche le sue sono due o tre, e due o tre libri le riassumono e le segnano. Questa ventina di volumi, o più, che — salvo pochi — il solerte Vallecchi ha raccolto sollecitamente, compresi il Dizionario dell'omo salvatico e i Poeti d'oggi, in collaborazione con Giuliotti e Pancrazi, e che, per l'occasione, letti o riletti, ho disposti in tre pile su lo scrittoio, non mi trovano dunque nuovo al giudizio, ne mi spaventano, e tanto meno mi seducono con le loro copertine d'un fondo — bianco o giallo — e con i loro grossi titoli incisi o no in legno: perché, se è la prima volta che ne scrivo di proposito, quanto dirò si è venuto lentamente e spontaneamente formando nel mio spirito, così come avviene dei giudizi che formuliamo di tutti gli uomini vivi del nostro tempo, compresi quelli — e in modo speciale — che non ci piacciono, facendo parte, comunque delle vita che viviamo, dell'aria che respiriamo, dei pensieri che ci alimentano o ci dissolvono. E se lo metto, in ordine materiale, dopo il Croce, vi è una ragione anche ideale, di contrasto, dì antitesi, per spiegare meglio quel rapporto intimo a cui ho accennato in precedenza (cfr. nel «Baretti», Croce allo specchio), fra l'attività centrale, storicamente risolutiva e propulsiva, del filosofo abruzzese — che studieremo meglio altrove — e quella dei suoi seguaci o dei suoi cosiddetti stroncatori. Il Papini anche nel recente libro di versi Pane e vino (1926), ostenta un anticrocianismo cristianizzato, misticizzato a modo suo, se non mistificato; come ieri, al tempo del pragmatismo ne ostentava uno anglicizzato. La cosa interessa veramente se, non soltanto lui, ma i suoi amici più autorevoli, se l'hanno a male quando si parla di crocianismo del Papini, come avvenne quando Mario Vinciguerra osò profanare il tabù nel suo Inventario di Cultura pubblicato nella Riv. liberale (1923) e se'n'ebbe cristiane ingiurie da Giuliotti ferocissimo. (Cfr. R. L., A. IV. 11 gennaio 1923), Ma la controversia può finire senza nessuna gozziana Difesa di Dante.
Il Papini ha al suo attivo molte, troppe pagine, manifestazioni e sfoghi contro il Croce. Per tacere del meeting futurista al Costanzi di Roma (21 febbraio 1913) e del famoso discorso Contro Benedetto Croce — famoso per ragioni anche vegetali —, i suoi libri quasi ostentano titoli di réclame contro il filosofo.
   Se non che io non sto tranquillo come Giuliotti a leggere i titoli, e nemmeno le parole; e su questo punto ho da dire qualche cosa che, non garba certo nè a lui nè ad altri: e cioè, che nonostante il glossario anticrociano, il Papini si riallaccia al Croce, non solo per quelle sue saltuarie, quasi bisbetiche e periodiche adesioni a certe teorie crociane (estetiche specialmente), ma — stando da un punto di veduta più alto o uscendo una buona volta dal pettegolezzo — sovratutto perché il fiorentino è uno dei nuovi scrittori in parte risvegliati alla libera attività dello spirito dall'opera crociana. Così a lui che grida continuamente la sua avversione al Croce, è toccata in parte la sorte che, in tempi anche nostri, ha caratterizzato certi antidanunnziani, i quali, in fondo, non erano che figli diretti o degeneri dell'allora pontefice D'Annunzio. Ma i figli sono buoni e cattivi; e il Papini, ch'è figlio del suo tempo, mentre non è riuscito a svincolarsi veramente dal Croce, tiene, rispetto all'opera costruttiva di lui, una posizione affatto negativa, benché d'importanza primaria per la comprensione della storia spirituale di questo primo quarto di secolo. E bisogna chiarirla sottoponendola al sole del mattino, per uscire una volta per tutte dalle luci dei Bengala.

D'Annunzio, Croce e Papini

   Fra il 1903 e il 1906, quando Giovanni Papini, eccitato da un precoce cerebralismo, s'affacciava alla ribalta della vita letteraria, due grandi voci s'erano dunque alzate, le quali, con risonanza e scopi diversi, tenevano desti, e in diversa attesa, gli sguardi degl'italiani. Giacché, se d'allora in poi D'Annunzio, conchiuso sé stesso, si rieccheggiò solamente, continuò tuttavia a influenzare i giovani, se non proprio a trascinare i vecchi; e il Croce, inciso il primo solco, si concentrò potentemente a dilatarlo e approfondirlo, senza più sosta. Altri più grandi o più espressivi, non c'erano.
   Nato vagabondo, il Papini non era fatto nè per le contemplazioni, nè per i chiari pensieri lungamente meditati, non per la Laus vitae, nè per la formazione di una nuova filosofia. La coincidenza della data di pubblicazione del Leonardo e della Critica, se è casuale, può anche avere un significato storico: in essa convergono due generazioni, che iniziano due diverse esperienze. La generazione matura e vigorosa del Croce, sa quel che vuole, e costruisce nel silenzio, ripugnando da qualsiasi frastuono di chiacchieroni reclamisti; quella dei giovanissimi, cui appartiene il Papini, non ha mèta alcuna, e possiede soltanto istinti di battaglia e divoratori desideri di conquista. E' un momento della travagliatissima crisi di formazione della nuovissima Italia. Quella che mal si è detta, in senso dispregiativo, «l'Italia di Umberto», si è conchiusa, ma non è finita, giacché essa è anche l'Italia del Carducci, del Crispi, del D'Annunzio: e se il primo diventa materia di dibattito in cui si provano i nuovi criteri della critica filosofica, l'esaltatore del sensualismo e del superuomo si associa inconsapevolmente al Crispi, che, falliti i suoi tentativi di espansione politica oltremare, aspetta la sua prossima rivincita il cui primo segnale — per un fatale giuoco della storia — sarà dato da quello stesso Giovanni Giolitti, che l'aveva demolito nel '92.
   Ora avviene che in Giovanni Papini — e negli altri della sua generazione — confluiscono le diverse correnti perparate dall'Italia di Umberto, e specialmente quelle dannunziane: e tutto il suo spirito, più che commosso, è in rivolta, posseduto da istinti, intuizioni d'una confusa ma nuova mèta, che lo spingono verso esperienze oontradditorie, goliardiche, atteggiate al più fiero disprezzo d'ogni sentimentalismo, ha invece determinate da un fondo romantico, in cui si confondono, se non si unificano, quei due termini che il Seillière recentemente ha tentato di mostrare unificabili: imperialismo e misticismo. Subito, però, s'imbatte nel Croce, che è l'antitesi dell'indeterminato, l'avversario irriducibile dell'avventura, nell'arte e nella filosofia. E resta sconcertato. La sua natura é irrequieta e senza disciplina alcuna: e il Croce, invece, è positivo, metodico, severissimo negli studi e nella vita. Egli non sa quel che cerchi sotto lo stimolo della giovinezza sfrenata in tutti i sensi: e il Croce si prepone degli itinerari accurati, dopo le prime esperienze di ricerche giovanili non tutte fruttuose, ma feconde generatrici del metodo. Cerca, il filosofo, sistemazioni di dottrine per giungere al midollo della storia e apprendere il giusto senso dell'arte, ma lo scrittore fiorentino, incapace di formarsi un'idea dell'essere e una regola di vita, dopo letture superficiali, scrive il Crepuscolo dei filosofi. Dove il Croce costruisce, il Papiri non distrugge, come si è detto, perché la distruzione presuppone una automatica creazione o sostituzione di valori, ma esprime il vuoto del suo pensiero e l'astrattezza della sua falsa cultura, che sono il vuoto e l'astrattezza di molti della sua generazione. Per es., tra i titoli dei suoi cartelloni, leggerete quello della crociata contro d'Annunzio: «Come al libertino fu rifiutato per sempre l'amore così a questo corteggiatore di mille passioni fu negata ogni vera passione» (Stroncature, 60). Ma, leggendo queste e simili definizioni, resterebbe in dubbio se si tratti veramente di D'Annunzio o del Papini medesimo, giacché questi non è che un nuovo tipo di dannunziano, e della peggiore specie: un falso discepolo, il quale, per apparire modernissimo, si serve della prima guardaroba straniera che gli capiti sotto mano.
   Dannunziani ce n'erano stati, e continuavano a essercene, di molte specie e sottospecie; ma, nè i crepuscolari, nè i bestiali daveroniani, devono ritenersi i più bastardi, se si riflette che il Papini creò il più tipico travestimento dannunziano, nella stessa furia con cui fece la sassaiola contro la casa del padrone. Esaltazione della materia, del senso, della forza; sfrenato esoticismo, manieratismo, barocchismo, falsa eloquenza, tutti gli elementi corrotti dell'arte dannunziana — che nel D'Annunzio trovano però l'artista che sa svincolarsene o portarli alla massima espressione — sfociano specialmente nel primo periodo dell'opera del Papini, come una torbida corrente che irrompe e dilaga senza argini su un terreno accidentato.
   Si comprende, così, la sua avversione al Croce: avversione non nel senso da lui e dai suoi amici difeso, cioè di una idea contro una idea, ma di una assenza di idee contro un sistema che si va formando con la passione e lo spasimo di tutte le costruzioni profondate nella storia del pensiero umano.

Carattere del Papini

   Si sa che ogni periodo di transizione e di formazione è caratterizzato dal fluttuare delle tendenze, dei giudizi, come ogni periodo vigoroso è segnato dalla determinatezza del pensiero e dell'azione. Questo primo quarto del nostro secolo ha tutti i caratteri dei periodi di formazione, e quindi della mobilità delle tendenze e delle forme. Però, essendo un periodo vitale, non di decadenza, di preparazione, non di sfasciamento, alle forze negative si oppongono energie formatrici, alle deficienze in un campo l'avanzato sviluppo altrove: e, in fondo, nel complesso agitarsi degli elementi molteplici che compongono la vita d'una nazione, anche le energie vitali che fra loro si urtano, concorrono in diversa misura alla creazione d'una nuova forma di pensiero e di vita.
   Giovanni Papini presenta tutti gli elementi negativi di questo periodo di crisi: superficialità, ondeggiamento di opinioni, ansia del nuovo; ma, sotto la prevalenza di questo suo male, si agitano, come ho detto, istinti, presentimenti, desideri che, talvolta, sono o sembrano preannunzi di quella forma ignota che si va maturando come nel grembo di una madre, nella nazione inquieta.
   Figlio tormentato del suo tempo, più che un dominatore, come apparve a qualcuno e come volle sembrare, egli ne è una vittima: fors'anche la vittima più comprensiva, anche se non la più alta. In lui si riconosce, come ho detto, una considerevole parte, la più numerosa o certo la più rumorosa d'una generazione. Ed è per questa sua radice inseparabile dal nostro tempo, che la sua opera di scrittore — guardata in sè — presenta così scarso valore, mentre ha il pregio del documento storico di un certo numero di anni se non proprio di un'epoca. Da ciò deriva anche il suo carattere spiccatamente autobiografico, che conserva in tutta la continuità del suo sviluppo, dal 1903 al giorno in coi scrivo: carattere, che, per la sua origine, anziché favorire, come avviene in tanti scrittori, si oppone alle due realizzazioni che l'autore ha vagheggiato: artistica e filosofica. Il tarlo è alla radice. Le forme che quest'opera assume di preferenza, anche quando sembrano fatte per la ricerca critica in senso scientifico, non sono che atteggiamenti in cui si esprime il disordine interiore di un uomo, il quale, sia che si atteggi a filosofo, sia che si diletti a fare dell'arte, ha un sola scopo: manifestare l'impetuoso sè stesso, rinnegando gli altri. Queste mie parole potrebbero far pensare all'artista sommo, giacché ogni grande non ha fatto che concentrare su di sè, sul proprio mondo spirituale, gli sguardi altrui, quasi facendo obliare quelli che l'han preceduto: sicché la concentrazione dei raggi ideali è l'arte medesima. Ma per il Papini il caso è ben diverso. Egli è un temperamento essenzialmente passionale e polemico: passionale tanto che, ciò che lo interessa esclude, più che per gioco dialettico, per elisione anticipata, ciò che interessa gli altri e il mondo, devastato com'è da un egotismo irragionevole e aprioristico come tutti gli egotismi; polemico, al punto che, ogni elemento di meditazione e di discussione, assume ai suoi occhi caratteri violenti di urto, si atteggia, più che in naturali antitesi, in obbligati scontri, nei quali la virulenza verbale è fine a sè etessa. In realtà questo dominante fondo passionale-polemico determina il carattere autobiografico anche dell'opera sua che meno dovrebbe portarne impronta. Nei molti, forse troppi volumi, che egli ha scritto, o raccolti, noi cercheremo invano un'opera sola in coi il pensatore o l'artista abbia espresso serenamente sè stesso, con la coscienza di chi si è lungamente e pazientemente interrogato, e abbia infine raggiunto una matura convinzione e una conseguente espressione artistica. La crisi dell'uomo è la crisi dello scrittore, il quale ha sempre rivendicato a sè una interrotta unità interiore, e ha detto il vero, contro quegli stessi che, commossi dalla sua conversione al cattolicismo, han voluto far due Papini: il primo della specie eretica, l'altro della buona, dei martiri di Scilli, dimostrando di non aver capito nulla dell'opera di lui, catalogandola con criteri spiccioli di convenienza politica. Di Papini reale, cioè storico, non ce n'è che uno, il cui svolgimento conserva i caratteri del suo temperamento nativo: passionale-polemico: che oggi si chiami cattolico e ieri di cento altre maniere, fa lo stesso ai fini di una critica del suo valore storico, se in lui gli elementi attivi non sono mutati, e non han prodotto, di conseguenza, niente di nuovo. Tutte le catalogazioni sono per ciò delle finzioni e delle imposture dei critici e degli esegeti; giacché una sola distinzione affatto didattica può farsi dell'opera sua, che in sostanza è sempre eguale al suo temperamento, qualunque sia l'oggetto del suo interesse: e cioè di due gruppi prevalenti in senso affatto materiale, uno filosofico ed uno artistico.
   L'unità dell'opera papiniana resta dunque intatta, generata com'è dagli impulsi di uno spirito affannato ed instancabile, polemico a superbo, ma sempre coerente a sè stesso. Dalla sua prima ora ha sempre vagabondato: nessuna meraviglia se domani rivarcasse le soglie della cattedrale cristiana, in cerca d'altre soglie e di altri cieli. Come il D'Annunzio, egli pure è l'uomo dì tutte le passioni e di nessuna vera passione: salvo, forse, una più sincera dedizione di se nell'attimo (si badi!) dell'accettazione; quasi una verginità che gli viene dalla sua stessa nativa rudezza, che le esperienze più leccate e franciose non son valse a estirpare dalla sua anima. E' facile, del resto, convincersene.

L'anti-filosofo

   Il Crepuscolo dei filosofi — egli scrive — «è uno dei prodotti della mia liberazione da molte cose di cui ho sofferto — è il tentativo, in ispecial modo, di liberarmi dalla filosofia e dai filosofi. E', anche, il compendio di un'epoca della mia attività dedicata sopratutto alla polemica e all'assalto». E più avanti: «E', come sarà facile accorgersi, un processo alla filosofia, uno sforzo per dimostrare la vanità, la vacuità, e la ridicolaggine della filosofia». E per ciò, volendo essere utile al genere umano, col fare una liquidazione generale dei filosofi, li ha presi — dice lui — «a uno a uno per il petto e li ho sbattuti nel muro con tanta forza di cui son capace, senza riguardi e senza pietà. A questo modo è venuto fuori un libro che è un massacro, un macello, una strage, un pubblico mattatoio», Riconosce che la foga «ha nociuto alla solidità dal libro»; che «sarebbe stata necessaria, una maggiore preparazione, una maggiore cautela, una maggiore freddezza»; ma «avrebbe perduto quell'odore di polvere e di giovinezza, quell'andatura un po' spavalda e un po' donquijotesca che io amo tanto con grande mio danno».
   Se la citazione è lunga, essa basta per tutta l'opera del Papini; il quale integra queste dichiarazioni del 1906 con altre del 1919 in cui si apprende che nel Crepuscolo «ci sono, buttati qua e là alla brava, tanti di quei pensieri da rifornire parecchi sistemi». E ciò è falso. Un uomo che si pone di fronte a Kant, Hegel, Schopenauer, Spencer e Nietzsche — e non


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escludiamo il Comte — con il suo pregiudizio, non ha nè cerca idee, ma bersagli per sfogare la propria impulsività, soddisfare il desiderio della demolizione: fare, a punto, il Don Chisciotte. Ma il suo libro, come gli altri da lui scritti con intenzioni filosofiche, ha anche un altro significato: la frettolosità e l'insoddisfazione dell'autore, che parla, ahi noi! per tanti della sua generazione. Demolire, negare, insultare, è questo il verbo cui egli e tanti altri obbediscono nella disperata furia dei venti anni, privi di una regola, vuoti di ogni credenza, e — in fondo — in cerca di una fede, che è lo scopo e lo spasimo dell'epoca nostra. Non occorre dire che, criticamente, il Crepuscolo dei filosofi non ha valore alcuno, ma è l'indice o un documento di una crisi generale: la crisi delle idee, la perduta fede in ogni cosa e per reazione, la deliberata volontà di acquistarsela a qualsiasi prezzo. Sin da questo primo saggio, il Papini scopre il tarlo del suo temperamento polemico e spalanca, le porte sul suo orizzonte intellettuale, che completa nel Tragico quotidiano e nel Pilota cieco: il dilettantismo. Dilettantismo, se volete, nel miglior senso della parola, che, sacrificherà però il filosofo e l'artista, i quali, solo in potenza, sono presenti nel Papini.
   Più severo parve il suo piegarsi al pragmatismo. Ma per la stessa ragiono per cui il Vailati e il Calderoni, fra i pochi pragmatisti italiani, si assunsero il compito filosofico di penetrare e chiarire «la teoria della scienza e la logica considerata come studio del significato delle proposizioni e delle teorie» il Papini preferì il «pragmatismo psicologico o magico» (Pragmatismo, 8). Anche questa folata è trascesa rapidamente, nonostante la dichiarazione del 1913 che nel suo pensiero «dal 1903, a oggi, sono stati sempre fermi alcuni punti che sono poi il succo del Pragmatismo: sbandimento dei problemi senza senso e delle frasi vaghe — studio e riforma degli strumenti del pensiero — tendenza al particolare e al pluralismo piuttosto che all'universale o al monismo — aspirazione a una maggiore potenza della volontà e ad un'efficacia diretta dello spirito sulle cose»; in cui di vero c'è una cosa sola: il tormento di un uomo che fra il positivismo e l'idealismo non riesce a crearsi una convinzione, di modo che, sfruttato il pragmatismo, va incontra a Berkeley, e rituffandosi poi in un larvato positivismo, non sa più che via imboccare. E' l'uomo del tempo, l'uomo che, nato nel maggior furore e predominio del positivismo italiano, si imbatte nell'idealismo, e incapace di comporre e superare in sè stesso il dissidio, cerca sempre nuove esperienze, In realtà manca di senso pratico, e per ciò non comprende lo sviluppo del pensiero umano e prende a rovescio la filosofia. Egli non cerca ma s'illude di cercare i problemi dello spirito per risolverseli, giacché non crede al pensiero, ma al sentimento, alla passione, al dramma della sua esistenza quotidiana. Per lui non esiste l'imparzialità, l'obiettività, il vero, insomma, ed è impossibile «spogliarsi di ogni simpatia e antipatia, dimenticare la propria persona e la propria razza» (Crep., 16), cioè filosofare nel senso più alto, o il solo alto. Ed ecco L'Altra metà: lo studio dei concetti negativi, di ciò che si contrappone ai concetti riconosciuti, desiderati, utili e benedetti»: il nulla, il diverso, l'impossibile, l'ignoranza, l'errore, la pazzia, il non fare, il male, l'inutile: le nove facce papiniane della triade dell'Essere, del Conoscere, e dell'azione. Ma non credetegli: egli non è filosofo, non ha triade da studiare, ma dei ghiribizzi su cui esercitare il suo spirito icastico; onde scrive, in fondo al libro, un capitolo intitolato «Rimorsi», in cui la sua anima contradditoria, ironica e sentimentale, si rivoltola con spasimi e smorfie, e non senza un certo languore: «Ma come è arida l'anima mia uscendo fuori da queste regioni del vuoto, del buio e del negativo!» Codesti, però, sono soltanto guizzi di luce, e non dovete credergli: la mia serietà, si dice subito, consiste nell'essere sincero: ed io son fatto a questo modo: per sperare devo disperare, per aver fede essere miscredente, per essere tragico devo fare il pagliaccio (p. 215).
   Gli scritti raccolti in Maschilità (anche, di più scarso pregio dei primi, perché sono la varietà, gli appunti, le note giornalistiche e la moneta spicciola dello scrittore, che si concede al mito pubblico minuto) ricaldano con esasperante monotonia il cliché ormai formato dell'uomo che prende la vita alla rovescia, graffia i muri con le unghie, sputa sul viso della gente a modo, ride di tutto e si agita nel vuoto. «Non abbiamo abbastanza coraggio. Ci vuole il coraggio - sempre coraggio — più coraggio — ogni giorno ogni ora ogni momento più coraggio. Coraggio: soltanto coraggio. Nient'altro che coraggio. Coraggio per noi e coraggio per gli altri. Coraggio per la demolizione e coraggio per la creazione. Coraggio contro l'ieri e coraggio per il domani. Coraggio nella vita e coraggio dinanzi alla condanna: coraggio dinanzi all'odio e coraggio dinnanzi all'amore» (Masch., 38-39). Cose inconcepibili!
   Ma l'esperienza futurista aveva fatto il suo effetto: e l'antifilosofo si ritrovava, dopo tanto frastuono, com'era partito: senza il guadagno di una idea.

— VITO G. GALATI.

Pubblicheremo prossimente la seconda parte (Papini artista e critico) di questo saggio in cui il Galati ha prospettato tutti i più vasti aspetti dello spirito papiniano. Ma già questa prima parte chiarisce più che bastantemente il punto di vista del nostro collaboratore.


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